A pochi giorni dalla sentenza che ha riabilitato il Manchester City, è giusto fare chiarezza su alcuni temi che troppo spesso vengono ridotti a questioni di tifo
Degli argomenti più dibattuti di questi giorni fa sicuramente parte il caso legato alla sentenza del Manchester City. Il club inglese, nel mese di febbraio, era stato condannato in primo grado a una squalifica per due anni dalle competizioni europee e la UEFA, che per anni ha dato mandato ai propri ispettori di vigilare sui conti dei Citizens, aveva anche imposto alla società una multa da 30 milioni di euro.
Incassata la botta, attorno al Manchester City si è scatenata subito la solita bolla di sciacallaggio benpensante. Il tutto, mentre lo sceicco Mansour – 19 miliardi di dollari di patrimonio stimato – dava mandato ai suoi legali di ricorrere al Tribunale Arbitrale dello Sport. Il 13 luglio, ovvero cinque mesi dopo il primo verdetto, il TAS ha ribaltato completamente la sentenza: il Manchester City viene dichiarato non colpevole e al club viene annullata la squalifica biennale.
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— Manchester City (@ManCity) July 13, 2020
Il caso Manchester City e il Fair Play finanziario
Prima di interpretare le motivazioni della sentenza definitiva, è doveroso fare un piccolo salto indietro per capire i motivi che portarono la UEFA ad aprire un fascicolo sul Manchester City. La società inglese venne, ormai il passato è d’obbligo, accusata di aver ripetutamente violato i paletti del Fair Play finanziario, uno strumento economico introdotto nel 2009 ed entrato in vigore nel 2011. Che, va detto, in passato ha mietuto diverse vittime illustri.
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La missione principale del Fair Play finanziario è quella di far diventare il calcio uno sport economicamente sostenibile. Secondo la UEFA, lo sceicco Mansour avrebbe più volte falsificato il bilancio del club per fare in modo che l’organo di controllo europeo non andasse troppo a ficcanasare nei conti. Per farlo, tra le altre cose, sarebbero state usate alcune sponsorizzazioni gonfiate versate direttamente da aziende qatariote correlate allo stesso Mansour. Il che, ovviamente, non è espressamente vietato, ma attentamente regolamentato.
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L’assoluzione del TAS e il concetto di prescrizione
E allora perché il Manchester City l’ha fatta franca? Partiamo col dire che, quando si toccano temi economici di questo genere, la terminologia è tutto. Va studiata, capita e poi interpretata in base al caso in questione. Le motivazioni del TAS non sono ancora state rese pubbliche – lo saranno a giorni sul sito ufficiale dello stesso organismo -, ma i media hanno fatto sapere che l’assoluzione del club inglese è avvenuta perché i fatti in questione “non sono dimostrabili o sono caduti in prescrizione”.
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Ciò significa, in parole povere, che il Manchester City non ha commesso reato o, se lo ha fatto, gli ispettori non hanno potuto dimostrarlo. O, ancora, che alcune di queste accuse sono state provate senza però essere passibili di punizione a causa del troppo tempo intercorso tra il reato e la sentenza. D’altronde, la prescrizione è uno strumento previsto dall’ordinamento giuridico ed è giusto che venga usata come tale.
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Il ruolo di stampa, tifosi e addetti ai lavori
E qui veniamo al nocciolo della questione. La vicenda del Manchester City ha portato a galla tutto il peggio del campanilismo. La sentenza, che ha di fatto assolto i Citizens per i motivi di cui sopra, è stata definita uno scandalo non solo dai tifosi delle altre big europee, ma anche da alcuni media che, evidentemente, non hanno ben compreso il motivo per il quale le cose siano andate a finire così.
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Il fatto che anche personaggi di spicco come José Mourinho e Jurgen Klopp non abbiano ancora capito certi meccanismi è però molto preoccupante. Per esempio, il portoghese si domanda perché – vista l’assoluzione – il Manchester City debba pagare 10 milioni di euro di multa. Il concetto è: pago solo se sono colpevole. Giusto, ma il TAS ha scritto nero su bianco che la multa alla società è figlia della non collaborazione del club con le indagini.
Klopp, invece, ha toccato una questione che evidentemente in molti non hanno ancora compreso, affermando che il Fair Play finanziario è uno strumento che in origine serviva per limitare le spese di una società. Niente di più sbagliato: serve invece a far sì che i bilanci di un club restino in equilibrio, che venga concessa solo una piccola percentuale di ‘rosso’ (da ripianare) e che comunque i vari piani di rientro vengano concordati con la UEFA.
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A certe uscite, quindi, devono corrispondere certe entrate, ai costi devono fare fronte ricavi certi in modo tale che l’aspetto economico venga sempre salvaguardato, proprio per evitare che si verifichino casi limite come ad esempio quello Malaga dello sceicco Al Thani. Nessuno però impone ai presidenti quanto spendere, assolutamente. Anzi, se si spende con cognizione, la UEFA ha tutto l’interesse nel permetterlo, visto che più soldi vengono investiti e più si alza il livello della competizione.
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Il caso Football Leaks e la figura di Rui Pinto
In tutto ciò merita un piccolo approfondimento la figura di Rui Pinto, 31enne hacker portoghese che, nel mese di gennaio 2019, era finito in carcere a causa di vari capi d’accusa tutti nati dal fascicolo Football Leaks. Questi file, che il pirata informatico autodidatta aveva sottratto illegalmente a varie società e fondi di investimento, vennero resi pubblici sul settimanale tedesco Der Spiegel, scatenando un vero e proprio polverone.
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Tra questi figuravano anche alcune delle mail incriminate, mandate da account che facevano riferimento a personaggi direttamente collegabili con il Manchester City. Ma Rui Pinto, oggi ai domiciliari in un appartamento di Lisbona, non aveva preso di mira solo il club inglese. Nei suoi leaks trafugati c’erano anche file sul PSG, su Cristiano Ronaldo e, soprattutto, sulla Doyen Sport, potente fondo di investimento ricattato a più riprese in cambio del silenzio assoluto sugli affari che la società stava portando avanti.
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UEFA e FFP: fallimento di un meccanismo?
La UEFA ne esce ridimensionata? Assolutamente no. Partendo dal presupposto che ogni sentenza è utile per fare giurisprudenza, il caso Manchester City servirà per casi simili in futuro, mettendo nuovi paletti e, soprattutto, stabilendo che da oggi in poi non basteranno file ed email trafugati illegalmente per costruire un processo.
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Per quanto riguarda il Fair Play finanziario, invece, ci sono da fare diversi ragionamenti. Sicuramente lo strumento va rivisto, perfezionato e bisognerà sedersi seriamente a discutere di alcune zone d’ombra che ancora lasciano dubbi (una su tutte, quella legata alle sponsorizzazioni esterne). Però rimane un mezzo fondamentale per garantire equità ed equilibrio ad un calcio che ha necessità di essere regolamentato.
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Dall’altra servirebbe informazione un po’ più approfondita, che non si occupi solo di parlare alla pancia del tifoso medio, ma che faccia capire loro le dinamiche nascoste dietro a certe situazioni. Che, volenti o nolenti, fanno parte del calcio di oggi e di domani. Infine, è palese il fatto che se questo caso fosse stato montato su una società ‘non emergente’, magari italiana, di sicuro ci si sarebbe prodigati nel salto della barricata. D’altronde il calcio è fondamentalmente sempre stato solo questo: una puerile questione di tifo.
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