Stiamo sopravvalutando l’Italia?

Il pareggio interno di ieri contro l’Olanda ci riporta a un vecchio problema: i giocatori italiani vengono esaltati oltre i loro meriti, rispetto ai colleghi stranieri?

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L’Italia di Mancini sta dimostrando soprattutto di essere una squadra double-face: 6-0 alla Moldavia una settimana fa, e subito dopo bloccata su un deludente 0-0 in Polonia e sull’1-1 in casa contro l’Olanda, ieri sera. Un problema non nuovo: a settembre gli Azzurri espugnavano la Johan Cruijff Arena, ma tre giorni prima non erano andati oltre il pareggio interno con la Bosnia.

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L’altalena di risultati della Nazionale di Mancini non è una questione che caratterizza gli ultimi mesi, e dimostra che ancora non è stato trovato un equilibrio tra gioco e gol. Ma, se l’Italia ha saputo mettersi alle spalle la delusione dei Mondiali 2018, oggi viene da chiedersi se il problema non sia la sopravvalutazione di una generazione di nostri calciatori.

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Italia: il dilemma Immobile

L’uomo contro cui tutti puntano il dito (al punto che Florenzi è dovuto intervenire a difenderlo pubblicamente) è Ciro Immobile. 166 gol in Serie A, tre volte capocannoniere del campionato e Scarpa d’Oro della scorsa stagione, il centravanti della Lazio diventa irriconoscibile non appena indossa la maglia azzurra, con cui ha segnato appena 10 reti in 42 incontri.

A lungo si è parlato di una sua incompatibilità tattica con il gioco di Mancini, ma proprio nelle ultime partite ci si è resi conto che, anche quando le occasioni arrivano, Immobile non riesce a sfruttarle. Non è facile spiegare le sue difficoltà, ma c’è chi pensa che, semplicemente, Immobile soffra la differenza qualitativa tra il calcio nazionale e quello internazionale: in passato, aveva già fallito in entrambe le sue esperienze all’estero, in club come Borussia Dortmund e Siviglia che parevano perfetti per esaltarne le doti.

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Accettare questa motivazione per le scarse prestazioni di Immobile in Nazionale significa però riconoscere un difetto congenito nel calcio italiano, con un campionato che confonde i valori rispetto al panorama internazionale. Significa riconsiderare il modo in cui guardiamo a tutti i calciatori italiani.

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Italia: valori sproporzionati

Senza lasciarci andare a ipotesi catastrofiste, bisogna ammettere che i problemi dell’Italia vanno al di là degli errori sotto porta di Immobile. C’è una grossa differenza di rendimento tra club e Nazionale che riguarda un po’ tutto l’attacco azzurro, basti pensare a Insigne e Belotti.

Il Gallo, tre anni fa, era addirittura stato valutato da Cairo 100 milioni di euro, nella stessa estate in cui il PSG ne aveva pagati 135 per Mbappé, uno dei migliori attaccanti al mondo. Da allora, le prestazioni di Belotti hanno confermato che quella del suo presidente era stata una sparata senza senso. Ma poche settimana fa Federico Chiesa è passato alla Juventus per una cifra che, complessivamente, potrebbe arrivare a 50 milioni, tra spesa del prestito più riscatto. Nella stessa sessione di mercato, Thiago Alcantara, regista determinante nel triplete del Bayern Monaco, è passato al Liverpool per una cifra di molto inferiore.

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Il caso Chiesa è emblematico: a 22 anni, l’esterno bianconero è ancora giovane, ma a Firenze non è mai riuscito a fare il salto di qualità, anche a livello caratteriale, che non pochi suoi coetanei stranieri hanno fatto. Le sue prestazioni in Serie A e in Nazionale non sono mai state davvero soddisfacenti, e al momento vanta appena 5 presenze nelle coppe europee (nell’Europa League 2016-17). A uno sguardo complessivo, il valore che il calcio italiano gli riconosce è sproporzionato rispetto a quanto visto in campo.

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Italia: la crisi dei giovani

Il timore comune è che Chiesa finisca per diventare il nuovo Bernardeschi: un giocatore dall’immenso talento ma incapace di trovare una maturità tale da renderlo determinante ad alto livello. Il problema del non riuscire a valorizzare i giovani è una questione che da tempo l’Italia si rifiuta di affrontare.

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I casi di Cassano e Balotelli sono i più noti, tra i talenti sprecati nostrani, ma non i soli. Stephan El Shaarawy è un altro giocatore che oggi potrebbe essere una stella, e invece gioca nel campionato cinese e fa la riserva in Nazionale. Berardi continua a essere un immenso goleador a Sassuolo (a 26 anni, ha segnato più gol di Totti e Del Piero quando avevano la sua stessa età), ma non è certo un nome di punta degli Azzurri. Tra problemi caratteriali e di infortuni, la speranza è che Kean e Zaniolo non seguano questa stessa strada.

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Non deve stupire, allora, che l’unico giocatore di caratura veramente internazionale dell’Italia sia Marco Verratti, da anni un punto fermo del PSG finalista in Champions: Verratti, la Serie A, nemmeno l’ha vista, a 20 anni è partito per la Francia e ha subito trovato la fiducia degli allenatori, confrontandosi con un contesto tecnico e tattico infinitamente superiore a quello del campionato italiano.

Italia: (ri)costruire il futuro

La differenza tra il nostro paese e gli altri salta subito all’occhio: Francia, Spagna, Germania (ma anche Portogallo e Inghilterra) sfornano in continuazione ventenni che sono già stelle internazionali e che riescono spesso a confermarsi nel tempo. Immaginare un 21enne italiano che possa essere acquistato per 80 milioni come è successo ad Havertz, o un 17enne che abbia il richiamo di un Camavinga, significa eccedere nella fantasia.

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Ma non perché l’Italia non abbia talenti a disposizione, piuttosto perché non sa crescerli. La produzione di calciatori è anche un fatto politico: la Francia ha oggi il miglior vivaio al mondo perché negli anni Ottanta ristrutturò il proprio sistema calcio attorno alla nuova accademia di Clairefontaine, alla quale potevano (e possono tuttora) iscriversi i migliori adolescenti del paese, per essere guidati negli anni decisivi della loro maturazione tecnica e tattica, secondo un’idea moderna di calciatore. Paul Pogba non è caduto dal cielo come una cometa.

La Francia ha fatto da modello per molti altri paesi europei, mentre in Italia è rimasto tutto in mano ai club, senza una più alta struttura organizzativa che plasmasse il calciatore italiano del futuro. È lo specchio di un paese che difetta nella programmazione e che non riesce a sviluppare un’idea coerente del proprio domani. Problema aggravato dal fatto che, negli ultimi anni, quello che è sempre stato riconosciuto come il miglior settore giovanile del paese, l’Atalanta, sta puntando sempre meno sui giovani, se non come armi da plusvalenza (si veda il caso Traoré).

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I problemi dell’Italia sono molto più profondi della precisione nel tiro di Ciro Immobile, e vanno affrontati quanto prima nelle sedi opportune, smettedo di affidare lo sviluppo del calcio nazionale al caso.

Valerio Moggia
Valerio Moggia
Nato a Novara nel 1989, è il curatore del blog Pallonate in Faccia, ha scritto per Vice Italia e Rivista Undici, e collabora con la rivista digitale Linea Mediana.

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