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Pirlo e gli altri giovani allenatori italiani nei grandi club: una storia complicata, in controtendenza rispetto a ciò che vediamo all’estero. Quali sono le cause?

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Le difficoltà della Juventus in questo inizio di stagione ci pongono di fronte a un fatto: in Italia è molto difficile, per un allenatore giovane e con poca esperienza, riuscire ad affermarsi in un grande club.

La scelta di Andrea Pirlo sulla panchina dei bianconeri aveva fin da subito generato dubbi, vista la sua totale inesperienza da allenatore, ma il suo caso è solo l’ultimo di una lunga serie, che pone l’Italia in chiara controtendenza rispetto ad altre big del calcio europeo.

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Tutto parte da Guardiola: quando, nel 2008, il Barcellona lo sceglie come allenatore della prima squadra pur avendo solo un anno di esperienza alle spalle (nella squadra B, in terza serie spagnola) a tutti sembrò un azzardo, ma in pochi mesi il tecnico catalano convinse gli scettici e cambiò radicalmente la storia del calcio.

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Da allora, tutti i grandi club sono alla ricerca di un profilo simile: un tecnico giovane, magari con un grande passato da giocatore e legato alla storia dello stesso club, che proviene dal settore giovanile e che può essere l’uomo in grado di rilanciare non solo la squadra, ma anche tutto il brand societario. Una cosa del genere, prima del 2008, sarebbe stata quasi impensabile.

Però, finora nessuno di questi tentativi ha avuto successo: il primo fu Ciro Ferrara, bandiera juventina che divenne tecnico della prima squadra bianconera nel 2009, dopo qualche anno come collaboratore tecnico di Marcello Lippi in Nazionale. Subentrato a Ranieri nel finale di stagione, Ferrara seppe risollevare la squadra e conquistarsi il secondo posto in Serie A, venendo riconfermato per la stagione successiva. Ma dopo un buon inizio, la squadra cedette e l’ex-difensore venne esonerato a fine gennaio 2010.

Dopo di lui sono arrivati Andrea Stramaccioni, all’Inter, e diversi altri al Milan: Clarence Seedorf, Filippo Inzaghi, Cristian Brocchi e Gennaro Gattuso. Nessuno di loro ha lasciato il segno e, ad eccezione degli ultimi tre, al momento sono tutti senza contratto. Ma nel conto consideriamo anche tecnici stranieri come Leonardo e Luis Enrique, che dopo la breve esperienza a Roma andò a Barcellona e vinse la Champions League.

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Una questione di fiducia e pazienza

Un dato salta subito all’occhio: nessuno degli allenatori citati è stato ingaggiato in una situazione ottimale. Ferrara guidava la Juventus ancora in ripresa nel post-Calciopoli; Stramaccioni ha avuto a che fare con l’Inter nel declino post-triplete; Seedorf, Inzaghi, Brocchi e Gattuso hanno dovuto gestire un Milan nella fase terminale dell’epopea berlusconiana e nel suo successivo passaggio di mano, con una società allo sbando e pochi fondi sul mercato.

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Per contro, Guardiola arrivò sì in un Barcellona in difficoltà, ma con una rosa di altissimo livello (Puyol, Xavi, Iniesta, Eto’o, Henry, Messi), con un grande potenziale economico (che consentì di aggiungere alla squadra Piqué, Keita e Dani Alves) e molti giovani in rampa di lancio. Quello di Guardiola non fu un lavoro semplice, e comportò anche cessioni importanti e una buona dose di rischio, ma partiva da una base molto più solida.

Non va però sottovalutato che, in Italia, c’è tradizionalmente poca pazienza con gli allenatori, e una radicata sfiducia nei confronti dei giovani che travalica l’ambito sportivo. La moda di scommettere su un tecnico che provenga dai ranghi societeari è presto passata da suggestiva ipotesi a calamita per lo scetticismo, a volte anche a prescindere dai risultati. Gattuso, ad esempio, è stato licenziato dal Milan nonostante, a detta di molti, difficilmente poteva fare di più con la rosa a disposizione.

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Come va all’estero

Eppure, il modello blaugrana è stato percorso negli anni successivi da altri club e con risultati, ma ancor di più con atteggiamento, differenti rispetto a come è andata in Italia. Tra i giovani allenatori italiani che abbiamo citato, Gattuso è quello che è resistito più a lungo su una panchina di un grande club, con una permanenza di appena 19 mesi al Milan. Pochissimo, rispetto ai suoi colleghi stranieri.

Il più noto è sicuramente Zinedine Zidane, che nel 2016 lasciò il Castilla per guidare il Real Madrid, portando le Merengues a vincere tre Champions League consecutive. Ma oltre a lui abbiamo visto i casi di Thomas Tuchel e Julian Nagelsmann, divenuti allenatori di Dortmund e Lipsia rispettivamente a 42 e 32 anni. E poi abbiamo Lampard, Solskjaer e Arteta, che prima di sedersi sulla panchina dell’Arsenal era stato per tre anni il vice di Guardiola al City, e in pochi mesi ha già vinto Coppa d’Inghilterra e Community Shield.

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La differenza è evidente specialmente per casi come quelli di Lampard e Solskjaer, che finora non hanno ottenuto ancora nessun risultato particolare (quarto e terzo, rispettivamente, nell’ultima Premier), ma sono ancora saldamente in sella ai progetti, e hanno ricevuto un consistente supporto sul mercato da parte dei loro club.

Chiaramente, ci sono delle eccezioni. Nell’ottobre 2008, il Real Madrid ha cercato di bissare la “mossa Zidane” promuovendo in panchina Santiago Solari, che aveva già preso il posto del francese al Castilla, ma la sua avventura è durata meno di cinque mesi. E in Italia, un caso simile a Guardiola lo abbiamo avuto con Antonio Conte, divenuto allenatore della Juventus a 42 anni e senza grandi risultati alle spalle (anche se comunque allenava già da sei anni).

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Un problema italiano

Il trend però è innegabile: nel nostro paese i grandi club sembrano più adatti a bruciare i giovani allenatori piuttosto che a lanciarli. Spesso è a causa delle forti pressioni e di società che non paiono in grado di difendere i propri tecnici a dovere, e anzi sovente danno l’impressione di fare squadra coi tifosi nel criticarli.

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Un altro aspetto, invece, è chiaramente quello economico e tecnico: pochi possono contare su rose come quella che trovò Guardiola nel 2008, Zidane nel 2016 o che ha oggi a disposizione Lampard. E vincere senza campioni e una panchina profonda è una cosa che riesce difficile a qualsiasi età e con qualsivoglia esperienza alle spalle.

Pirlo, alla Juventus, ha trovato una rosa in gran parte da rifondare e senza una precisa direzione tattica; qualcosa è stato fatto, ma delle due prime scelte come centravanti (Suarez e Dzeko) nessuna è arrivata e si è ripiegato su Morata, mentre in difesa l’allenatore ha dovuto promuovere subito il giovane Frabotta. La vera scommessa che la Juventus può fare, a questo punto, è avere pazienza e confidare nel suo allenatore, più di quanto abbia fatto con Sarri.

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