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Perché le squadre di Serie A vogliono i soldi dal governo

In Primo PianoPerché le squadre di Serie A vogliono i soldi dal governo

I club di Serie A hanno chiesto aiuti economici al Governo per 600 milioni per fare fronte alla crisi innescata dalla pandemia e che potrebbe travolgere l’intero sistema del calcio italiano. Scopriamone le ragioni profonde.

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La Serie A chiede soldi al governo. Le squadre di calcio del massimo campionato italiano hanno infatti chiesto allo Stato un sostegno economico pari a 600 milioni di euro, come indennità per i mancati ricavi di questi mesi. A questa richiesta è stata aggiunta anche quella di rimandare il versamento Irpef sugli ingaggi dei giocatori, ma entrambe le proposte sono state rifiutate dall’esecutivo.

Questa è solo la punta dell’iceberg della crisi economica che il calcio sta vivendo a causa della pandemia. Cosa nasconde sotto la superficie? Proviamo ad approfondire i problemi che attanagliano il calcio in Italia.

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Le richieste dei club

Le difficoltà attuali dei club di Serie A sono dovute innanzitutto al coronavirus, che ha comportato la chiusura degli stadi e quindi una diminuzione degli introiti, oltre che la temporanea sospensione dei campionati. Le spese dei club, inoltre, sono aumentate per poter garantire tamponi frequenti al personale e ai giocatori, e tutte le altre misure di sicurezza che la situazione impone. “Sono incrementati i costi e diminuiti i ricavi” ha confermato a Sky Sport 24 Adriano Galliani, ad del Monza ed ex-Milan.

Anche più diretto è stato Paolo Dal Pino, il presidente della Lega Serie A, intervistato dal Corriere della Sera: “Il calcio è a un passo dal disastro economico” ha detto, specificando che le società non chiedono aiuti, “ma ristori a seguito di misure restrittive”. Ovvero, secondo il mondo del calcio i soldi chiesti al governo sarebbero un dovuto atto di compensazione.

L’ITALIA DEI GREGARI STA FUNZIONANDO BENE

Il calcio, in Italia, coinvolge 300.000 lavoratori complessivi e genera ricavi per quasi 5 miliardi di euro all’anno; tra il 2006 e il 2017, la contribuzione fiscale del settore è stata di 12,6 miliardi (8,6 dalla sola Serie A). Vale a dire che il calcio è un’azienda ricca che frutta molti soldi allo stato italiano.

Una situazione che, ricordiamolo, va al di là della sola Serie A: tutto il calcio italiano sta soffrendo, specialmente nelle leghe minori, quelle in cui girano meno soldi e in cui calciatori sono molto lontani dallo stereotipo del campione miliardario. A fine ottobre, in alcuni campi di Serie B sono stati esposti striscioni per chiedere l’intervento del governo, ma il momento è ancora più drammatico in Serie C e nel calcio femminile.

Oltre la pandemia: i debiti dei club

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“Si può immaginare uno Stato che finanzia le star del pallone in un momento in cui ci sono settori che rischiano il collasso?” si chiede Giovanni Capuano su Panorama. Il tema degli aiuti al calcio rischia di essere altamente impopolare, e non del tutto a torto. Il coronavirus è stato più che altro l’evento catalizzatore di problemi pre-esistenti, che a causa della pandemia hanno finito per gonfiarsi.

Primo su tutti, quello dei debiti dei club di Serie A. Le cinque principali squadre del campionato (Juventus, Inter, Milan, Lazio e Roma) hanno perso 650 milioni in questi mesi, più del doppio rispetto al passivo dell’intera Serie A della stagione 2018-19. Ma basta andare a controllare i dati del recente Report Calcio della FIGC per scoprire che nell’annata pre-pandemia il debito complessivo della Serie A ha superato i 4 miliardi di euro, in crescita dell’11% rispetto all’anno precedente.

Tutto ciò nonostante un incremento considerevole (+28,5%) del patrimonio netto delle società: in parole povere, i club guadagnano sempre di più, ma allo stesso tempo perdono sempre più soldi. A pesare maggiormente sui bilanci delle squadre italiane sono i debiti finanziari, come fa notare Calcio e Finanza, ovvero quelli verso banche, società di leasing e factoring, e obbligazioni: questi debiti ammontano a 1,35 miliardi, cioè al 31% del totale.

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Il nodo dei diritti tv

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La crisi del coronavirus, si dice spesso, ha portato anche a una contrazione dei diritti televisivi. Un fatto controintuitivo: sarebbe logico pensare, infatti, che non potendo andare allo stadio i tifosi abbiano sottoscritto un abbonamento per vedere le partite da casa. Invece, in questi mesi Sky, Dazn e Mediaset Premium hanno perso abbonati.

Ma, anche in questo caso, siamo di fronte a una crisi che arriva da lontano. La frammentazione del calcio italiano su tre differenti servizi tv non ha sicuramente aiutato: se un tempo bastava un unico abbonamento per seguire tutta la Serie A, la Serie B e le coppe europee, oggi non è più così, e la spesa per il tifoso è aumentata. Parlando della sola Sky, la crisi era già stata evidenziata dalla stampa nell’estate del 2019, ben prima della pandemia.

La Lega Serie A, dal canto suo, lavora per cercare acquirenti migliori, e questo potrebbe frammentare ulteriormente l’offerta. È notizia di questo autunno che, alla prossima asta per i diritti tv del campionato italiano potrebbero partecipare anche Netflix e Amazon, che nel frattempo si è assicurata la Champions League dal 2021 al 2024.

Una Serie A in cerca di evoluzione

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Guardare a Netflix e Amazon significa guardare a due player internazionali molto potenti: un accordo con uno dei due colossi dello streaming potrebbe garantire una maggiore visibilità al campionato fuori dai confini nazionali, senza dover trattare numerosi accordi differenti. Sarebbe un passo avanti che la Serie A necessita di fare da tempo, per recuperare il distacco dai grandi rivali europei.

Infatti, il nostro campionato è, per ricavi, superiore solo alla Ligue 1 tra i Big 5, e spesso gli è stato rinfacciato di non avere una struttura societaria in grado di competere con rivali che, oggi, sono prima di tutto colossi economici che leghe sportive.

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Così, di recente la Lega Serie A ha approvato le trattative esclusive con CVC-Advent-FSI, una cordata di fondi di private equity che collaborerà con la Lega alla creazione di una media company che gestirà autonomamente i diritti televisivi. Sul Corriere della Sera, Mario Sconcerti ha salutato la svolta definendola: “Un’operazione di pulizia di poteri che dovrebbe ridurre al minimo quella conflittualità fra presidenti che ha sempre bloccato lo sviluppo del campionato”.

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La situazione all’estero

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Occhio però a non cadere in un’altra semplificazione, passando da “è solo colpa della pandemia” a “è solo colpa del calcio italiano”. La Lega Serie A e i suoi club soffrono chiaramente di un deficit rispetto ai rivali stranieri (per fare un raffronto, l’ultimo bilancio della Juventus ha segnato un passivo di 71,4 milioni, mentre il Real Madrid è stato in attivo di 320.000 euro), ma la situazione non è buona per quasi nessuno.

Il calo degli introiti dei diritti tv è un problema globale. Di recente, la Bundesliga ha dovuto firmare al ribasso sul prossimo quadriennio, e un simile guaio ha colpito anche la Premier League. “Il sospetto che il mercato sia saturoscrive ancora Capuano – e non più in grado di produrre crescita a due cifre come fatto negli anni Duemila è forte”.

Il campionato inglese, quello più ricco, moderno e strutturato al mondo, ha fatto registrare una calo degli utili di 935 milioni di euro, e i suoi club hanno perso 187 milioni: i dati non sono quelli del calcio dell’era Covid-19, ma sono relativi alla stagione 2018-19. E, mentre i club delle serie minori si ritrovano ora a rischio fallimento per la prima volta nella storia, anche in Inghilterra si discute di aiuti economici di stato alle squadre di calcio.

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Le contraddizioni del sistema calcio

Sul banco degli imputati ci sono prima di tutto gli ingaggi elevati dei giocatori, secondo molti divenuti insostenibili soprattutto per i grandi club. La lievitazione dei costi delle società ha avuto come effetto diretto l’aumento del prezzo dei biglietti e quindi una diminuzione nel pubblico degli stadi, verificatasi ben prima della chiusura causata dalla pandemia.

Ma allo stesso tempo la spesa per gli ingaggi è resa necessaria da un sistema che cerca di espandersi sempre di più aumentando il numero delle partite (è da poco sorta una nuova competizione per nazionali, la Nations League, e l’anno prossimo avremo una terza coppa europea, l’Europa Conference League), che significa maggiore necessità di turn-over e maggiore rischio di infortuni.

Il calcio sembra essersi infilato in un vicolo cieco, come una bolla costretta a gonfiarsi a dismisura per sostenere un giro d’affari colossale, che causa situazioni paradossali di club (come il Barcellona) che annualmente segnano ricavi record ma galleggiano sempre appena sopra la soglia della bancarotta.

I fondi governativi per salvare la Serie A (e magari anche le leghe minori, di cui non si parla quasi mai) possono essere necessari a tamponare una crisi momentanea, ma non risolveranno certo i problemi profondi di un sistema, sia a livello locale che europeo. Per questi, sarebbe necessario ripensare completamente l’idea di business che tiene in piedi il calcio globale.

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